giovedì 13 gennaio 2011

ALCUNE RIFLESSIONI SULLE APERTURE FESTIVE

L'apertura dei centri commerciali nei giorni festivi e domenicali non può non suscitare molteplici interrogativi. La domenica diventa sempre più tempo del lavoro, in cui prevale «la logica dello scambio», e sempre meno tempo della festa e del riposo, della riflessione sul proprio lavoro e della socialità. Oltre che della famiglia.
Il punto è che la grande distribuzione con l'apertura festiva offre un servizio che non va a ovviare a un bisogno effettivamente percepito dalla popolazione (ad eccezione dei pur numerosi "feticisti dello shopping"), ma tende più che altro a... creare questo bisogno.
Resta il fatto che, in parole povere, se c'è il centro commerciale aperto di domenica, la "gente" tende ad andarci in massa, ma se esso non c'è, la "gente" vive benissimo lo stesso.
La conseguenza sta comportando anche il cambiamento di un sistema di vita in cui la festa era considerata giorno non soltanto di ricupero di energie fisiche, ma da dedicare alla propria famiglia, ai propri figli, al conseguimento di quelle finalità (religiose, relazionali, culturali, educative, di servizio all’altro, sociali…) altrimenti impossibili nel corso dell’ordinaria ferialità.
Si pone anche una questione antropologica: quale uomo si prefigura in una società che dimentica la domenica, come tempo di festa, di riposo, in cui guardare al senso del proprio lavoro, in cui coltivare le relazioni e gli affetti e non solo i consumi?
Se si continuerà su questa strada, anche la domenica finirà, prima o poi, per essere dominata dalla logica dello scambio, della contrattazione e del consumo; da che cosa, continuando di questo passo, le persone finirebbero per accorgersi che quel giorno è domenica?
 Di qui il primo interrogativo da sottoporre all’attenzione di tutti: in che direzione siamo incamminati?
Verso ritmi di vita sempre più insostenibili, nella direzione di un vissuto sempre più incapace di esprimere significati che vadano al di là della logica del produrre-distribuire-consumare a ritmi e con volumi sempre maggiori.

Si deve prendere in considerazione anche l’aspetto etico che riguarda il senso del nostro tempo, la necessità di avere momenti condivisi di riposo, di festa.
Si deve riconoscere e rispettare valori che non rappresentano la nostalgia arcaica di una società contadina che non esiste più, ma l’affermazione della priorità dell’uomo e delle sue esigenze più profonde anche nel mondo dell’economia, del commercio e della tecnica.
Quest’attenzione per la socialità, le relazioni, lo stare insieme non in modo artificiale non vuol dire ovviamente fermare tutto la domenica, ma almeno considerare l’apertura festiva come un problema, una soluzione necessaria e da limitare quanto possibile. Non come un bene assoluto, un elemento di liberazione dell’uomo che finalmente può consumare quando vuole, come invece qualcuno ci vuole far credere.

Qualcuno potrà contrapporre le esigenze, sacrosante, dei consumatori. Sta bene.
Ma un’offerta commerciale di sei giorni a settimana per una media giornaliera che varia dalle otto alle tredici ore quotidiane non costituisce un’amplissima possibilità di scelta?  
Sei giorni a settimana e ventidue domeniche all’anno di apertura non sembrano sufficienti per lo shopping?
Ci si potrebbe chiedere, altresì, se sia più 'indispensabile' fare shopping la domenica e i festivi o trovare aperte, ad esempio, banche, uffici postali o uffici pubblici.
Perché nessuno si pone questa domanda?

2 commenti:

  1. Ritengo la questione posta da Gianni uno spunto estremamente interessante, che stimola ad interrogarsi sulla duplice "identità" dei centri commerciali, che a mio avviso denota in modo molto chiaro la distanza che c'è fra chi propone il servizio e chi ne usufruisce. La spasmodica corsa al richiamo del cliente, attuata con chilogrammi di opuscoli cartacei pubblicitari e con il proliferare delle fidelity card, che ormai vengono proposte quasi in tutti i negozi, denota in modo chiaro che la parola caratterizzante il "soggetto centro commerciale" è "FINE", inteso come il fine ultimo, ovvero il portare il cliente all'acquisto del prodotto, alimentando il flusso economico CLIENTE->NEGOZIO->SOCIETA' PROPRIETARIA o di GESTIONE DELLA STRUTTURA. Se questo aspetto è comprensibile ed anzi ovvio da questo lato, non lo è invece per il fruitore finale del servizio, ovvero la perona/famiglia che inquadra l'identità del centro commerciale con un'altra parola, diversa da fine, ovvero "MEZZO". Il mezzo attraverso il quale passare la domenica, stare con i figli, pranzare, cenare, costituendo una moltitudine di persone che perlopiù usciranno dallo stesso senza aver acquistato nulla. Non mi addentro in aspetti economici e commerciali sulla questione, materia a me non congeniale, ma concordo con Gianni nell'osservare il "divario etico" tra i grandi centri commerciali e i piccoli negozi. I primi devono inevitabilmente colmare la distanza che li separa dal fruitore finale, rendendo il "MEZZO" il più possibile accattivante, interessante, quasi irresistibile, consentendo al "FINE" di essere estremamente redditizio, e comunque vincente anche se il rapporto PRESENZE_GIORNALIERE/REALI_ACQUIRENTI sia molto alto. Questo avviene inevitabilmente con uno sconfinamento etico, ovvero con l'offerta non solo di un prodotto materiale, ma anche di un prodotto sociale, impacchettando e confezionando anche il "giorno festivo". Questo sistema non è invece proprio dei piccoli esercenti, in cui non esiste divario fra i due soggetti, ed il "FINE" vale sia per il commerciante che per l'acquirente, entrambi incentrati su di un bisogno materiale (vendita-acquisto di due pacchetti di caffè) e dove non esiste il rischio di sconfinamento etico, ma semmai il rapporto cordiale fra due soggetti che spesso vivono nello stesso paese e fanno parte della stessa comunità.
    CAMOZZI ERNESTO

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  2. buongiorno.
    ho un'erboristeria in galleria di un centro commerciale, la gestisco e ho un dipendente.Alla luce di quanto dice la deregolamentazione delle aperture non sono assolutamente d'accordo.Monti mi costringe a vivere nel negozio e poi vuole anche l'imu sulla mia casa?Non posso assumere un altro collaboratore per i costi e in più devo rinunciare alla mia vita famigliare.Senza contare che sono costretta ad essere in un centro commerciale perchè la mia città è diventata un dormitorio e un enclave di extracomunitari, dunque il piccolo negozio muore.Non hanno capito nulla degli italiani ed è ancora più scandaloso pensare a quanti soldi spesi inutilente per i festeggiamenti dell'Unità d'Italia.....chiedete a quanti italiani si considerano ancora tali!!!è una vergogna ho 37 anni una figlia da crescere, voglia di lavorare in proprio ed essere schiavizzata da una legge che limita la libertà.

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